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Inconsapevoli della propria identità (a proposito di evasori fiscali)

Alcune recenti dichiarazioni del Governatore Draghi e del Presidente (o vicepresidente, non ricordo) dei giovani industriali, a proposito di “macelleria sociale” e “referendum abrogativo di leggi tributarie”, mi spingono a qualche rapida riflessione sul tema, oramai iper-inflazionato, dell’evasione fiscale.

Nei corsi che tengo annualmente presso la Facoltà di Economia dell’Università di Padova, è mia abitudine dedicare le prime lezioni al diritto tributario, inteso come materia di studio, soffermandomi sull’estensione della disciplina e sulle caratteristiche delle entrate che, per l’appunto, si collocano in questo comparto del diritto pubblico.

Qualsiasi studente, anche quello con un grado di preparazione più modesto, dovrebbe pertanto essere in grado di spiegare ad un ipotetico interlocutore che il diritto tributario si occupa di “entrate”, non di spese, e che quello di “tributo” non è un concetto camaleontico, capace di mutare consistenza in ragione delle modalità, dei tempi e soprattutto della “qualità” della spesa pubblica.

Il diritto tributario è espressione di una disciplina strutturalmente votata all’acquisizione di risorse, anche se, in talune occasioni, tale acquisizione non si verifica affatto (per esempio, a causa di norme di esonero) o si verifica solo in parte, secondo schemi di favor per il contribuente (norme di agevolazione).

Sarebbe tuttavia un errore pensare al diritto tributario quale materia del tutto avulsa dalle dinamiche spesa pubblica.

Non c’è dubbio che, in prima battuta, l’applicazione del tributo mira a garantire il gettito. In seconda battuta, peraltro, codeste entrate costituiscono, unitamente ad altre tipologie di risorse (per esempio, quelle che derivano da contratti stipulati dallo Stato), un elemento indispensabile per il pagamento di quanto è necessario alla collettività. Detto altrimenti, la spesa pubblica è possibile perché esistono, dietro le quinte, tributi capaci di alimentarla.

Quando dico “spesa pubblica” intendo riferirmi al finanziamento dei costi di beni e servizi fondamentali per il gruppo sociale, come la sanità, la giustizia, la protezione civile eccetera. Da questo angolo di osservazione, l’imposta rappresenta il simbolo della nostra appartenenza sociale, a prescindere dai benefici che ciascuno di noi riesce a garantirsi nel momento in cui fa fronte all’obbligazione tributaria. Il pagamento dell’imposta si colloca nella prospettiva del “bene comune”, non già in quella dell’interesse particolare: il contribuente che versi l’Irpef o l’Ires oppure l’Irap non si aspetta una contropartita diretta e dovrebbe essere consapevole del fatto che il gettito andrà a beneficio di chi, in un certo momento, necessita di taluni beni o servizi che spetta allo Stato (o a qualche altro ente territoriale) erogare.

Se tutti si sentissero per davvero parte di questo “gruppo”, forse non ci sarebbe nemmeno il bisogno dell’art. 75 Cost. e del divieto di referendum abrogativo di leggi tributarie, perché a nessun verrebbe in mente di danneggiare o mettere in crisi la collettività della quale fa parte.

Questo senso d’identità va tuttavia coltivato e costantemente rinforzato, perché tanto maggiore è la qualità della spesa pubblica e tanto più il contribuente è consapevole del buon uso delle risorse, tanto più ci si sente “parte di un tutto” e aumenta la propensione al corretto adempimento delle obbligazioni fiscali.

Agli amministratori centrali o locali spetta il compito di garantire la qualità della spesa.

Ai contribuenti spetta, invece, il compito di garantire la qualità dell’imposta. Tanto maggiore è l’evasione, tanto più aumenta la pressione su chi fa il proprio dovere e tanto più l’imposta diviene, attraverso periodici gonfiamenti degli imponibili ed incrementi di aliquote, una cattiva imposta. Forse è questo che ha cercato di dirci il Governatore Draghi.

13.11.2010
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