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“Moderazione” e “abuso del diritto” non vanno di pari passo

Apprendo da Il Sole 24 Ore del 2 dicembre 2010 che, in occasione di un convegno tenutosi, in questi giorni, a Bergamo, alti funzionari dell’Agenzia delle entrate avrebbero dichiarato di auspicare, nei riguardi dei contribuenti, un’applicazione moderata del principio di divieto di abuso del diritto.

Mi interrogo sul senso di una simile indicazione programmatica.

I nostri imprenditori hanno bisogno di tante cose: prestiti, programmi, decisioni, capacità di orientamento in un mercato sempre più globalizzato. Non necessitano, però, di incertezza. Quando eseguono una qualsiasi operazione economica, hanno il diritto di sapere come saranno tassati, quale peso fiscale graverà sul fatto alfa o sul fatto beta e, soprattutto, se un eventuale risparmio d’imposta potrà essere considerato dal Fisco – e in virtù di quali regole - “abusivo”, “elusivo” oppure “lecito”.

L’idea di un impiego moderato del divieto di abuso, quasi si trattasse del dosaggio di un farmaco troppo potente per l’ammalato, ha un impatto mediatico devastante, perché lascia intendere che si naviga a vista, senza regole oppure con regole che possono cambiare da un giorno all’altro, caso per caso, sulla scia di contestazioni da parte del Fisco che potrebbero arrivare domani come non arrivare mai.

L’uso moderato del divieto di abuso è un vero e proprio punto interrogativo sulle agende di chi fa impresa, una fonte inesauribile di preoccupazioni nella prospettiva dell’effettuazione di una qualsiasi scelta economica, sia essa di ordinaria oppure di straordinaria amministrazione.

Su questo tema tutti dovremmo meditare un poco, non importa se in veste di accademici, di cultori della materia, di operatori del diritto o di semplici studenti universitari.

Se è vero che il divieto di abuso del diritto rappresenta, per le imposte non armonizzate (in testa a tutte, l’imposta sul reddito delle società), una declinazione del principio di capacità contributiva (come ha sostenuto la nostra Corte di Cassazione), qualsiasi intervento del legislatore volto a delimitarne l’applicazione finisce per risultare, rispetto al principio medesimo, recessivo. Il giudice potrebbe sempre dire: <<esiste la legge, ma io applico l’art. 53 della Costituzione>>; e l’amministrazione finanziaria potrebbe cavalcare l’onda, sollevando la questione dell’abuso in qualsiasi grado del giudizio e finanche nell’ambito di controversie incentrate su fattispecie di evasione fiscale.

Sull’art. 53 della nostra Costituzione è necessario insistere di più.
Dietro a questa disposizione c’è anche il principio di uguaglianza sostanziale, perché l’idoneità alla contribuzione è l’unico metro del quale noi disponiamo per stabilire se Tizio è, da un punto di vista fiscale, uguale a Caio. Non v’è dubbio che ad identica capacità contributiva debba corrispondere una identica tassazione.

Ma uguaglianza e capacità contributiva non sono gli unici pilastri del sistema tributario. C’è anche il principio della riserva, che non significa soltanto “consenso all’imposizione”, ma anche “certezza” nei rapporti tra Fisco e contribuente. La capacità contributiva non può essere apprezzata – per così dire – “in natura” oppure “a vista”, ma impone una selezione delle ricchezze fiscalmente rilevanti che solo il legislatore può eseguire, nel rispetto dei richiamati principi di uguaglianza e capacità contributiva. Detto altrimenti, non si tratta di stabilire, di volta in volta, quanto ha incassato questa o quella società, ma quale reddito possa essere ascritto alla prima o alla seconda sulla base delle disposizioni dettate, appunto, per la misurazione di codesto arricchimento.

È evidente che la legge non può garantire, da sola, la certezza nei rapporti tra Fisco e contribuente. Prima di essere applicata al caso concreto, essa va interpretata e, come tutti sanno, l’interprete può disporre di qualche margine di manovra nella configurazione della norma, soprattutto quando si trovi al cospetto di disposizioni di pessima fattura.

Però la legge è un primo passo verso la citata certezza, perché segna il binario lungo il quale i contribuenti, l’amministrazione e i giudici debbono muoversi. Ciascuno dovrebbe perciò rispettare il proprio ruolo: spetta al legislatore selezionare le ricchezze fiscalmente rilevanti; spetta all’amministrazione finanziaria il compito di controllare che il contribuente abbia correttamente applicato la legge; infine, spetta al giudice stabilire se il Fisco, attraverso i propri atti, abbia ben operato.

La tassazione “per principi”, ancorchè costruita sulla moderazione, stride con questa impostazione, perché nessuno è in grado di stabilire in quale modo il principio di riferimento sarà calato sul caso specifico. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: i contribuenti finiscono per essere tassati su operazioni che non hanno mai eseguito e che non hanno voluto, in un sistema che – come ho più volte ricordato – contempla tra i principi fondamentali anche quello della riserva.


 

05.12.2010
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